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Tessili e sostenibilità, la sfida è nei consumi

In attesa del decreto che possa stabilire le modalità di gestione dei rifiuti tessili in Italia, l’attenzione si concentra sul consumo. Limitare la cosiddetta fast fashion per ridurre gli sprechi tessili, aumentando così il ciclo di vita e il riciclo dei tessuti. Prima di parlare di rifiuti tessili, quindi, per diminuire l’impatto dell’industria tessile sull’ambiente è necessario ripensare i consumi, la durata dei prodotti e avviare una filiera dedicata al riuso. Questa la strada intrapresa dall’Unione Europea per rafforzare il processo verso una reale quanto concreta economia circolare.  Di fatto, la produzione tessile è fortemente impattante sull’ambiente: ha bisogno di utilizzare molto acqua, senza contare l’impiego dei terreni adibiti alla coltivazione del cotone e di altre fibre. L’Europa stima che l’industria tessile e dell’abbigliamento abbia utilizzato globalmente 79 miliardi di metri cubi di acqua nel 2015, mentre nel 2017 il fabbisogno dell’intera economia dell’UE ammontava a 266 miliardi di metri cubi. Inoltre, alcune stime indicano che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in circa 2 anni e mezzo.

Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. In quell’anno, sono stati necessari in media nove metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie prime per fornire abiti e scarpe per ogni cittadino dell’UE.
Il tema dell’acqua è particolarmente delicato quando si parla di tessili: si stima infatti che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Il lavaggio di indumenti sintetici rappresenta il 35% del rilascio di microplastiche primarie nell’ambiente. Un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700.000 fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare.

In tema di emissioni, viene imputato all’industria della moda il 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona. Questo significa che i prodotti tessili consumati nell’UE hanno generato emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate.

Se la produzione di abbigliamento è raddoppiata nel periodo 2000 -2015, l’utilizzo è diminuito del 35%. E questo ha comportato la riduzione del ciclo di vita dei prodotti tessili: in media ogni cittadino europeo consuma ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltisce circa 11 kg. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%).

Così, per parlare di un tessile amico dell’ambiente, la strada delineata dall’UE traccia nuovi modelli di business, dove trovano spazio il noleggio di abbigliamento, la progettazione dei prodotti realizzata in modo tale da consentire che il riutilizzo e il riciclo siano più facili (moda circolare), la sensibilizzazione dei consumatori ad acquistare meno capi di migliore qualità (moda sostenibile) e in generale l’orientare il comportamento dei consumatori verso opzioni più sostenibili.